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Alzheimer: machine learning per individuarne predisposizioni genetiche

Studio Sapienza con IIT e altri centri internazionali ricerca

Alzheimer: un approccio machine learning per individuare le predisposizioni genetiche Un nuovo studio Sapienza, realizzato con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e altri centri di ricerca internazionali, ha valutato la possibilità di predirre con metodi di apprendimento automatico le varianti genetiche associate a un alto rischio di malattia. L’Alzheimer fa parte di quelle malattie genetiche causate da mutazioni a livello di un singolo gene, ovvero in cui una variante a livello di singolo nucleotide (SNV Single-Nucleotide Variants) è sufficiente per causare la patologia genetica. Ad oggi si conoscono il gene e la mutazione coinvolti nell’insorgenza di solo la metà di queste malattie. Diversi studi di larga scala (chiamati in inglese GWAS, Genome-wide association studies) hanno portato alla luce informazioni su singole varianti associate alla propensione di un paziente di contrarre l’Alzheimer, ma gli SNV non posso essere utilizzati efficacemente a scopo predittivo senza considerare le relazioni fra di essi e i potenziali rapporti con altri elementi del genoma. Basti pensare che molti soggetti con una determinata variante genica associata all’Alzheimer (come per esempio la mutazione nel gene APOE), non sviluppano la patologia.

Per comprendere come ciò possa accadere, un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, insieme con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e altri centri di ricerca internazionali, ha utilizzato un approccio di machine learning per analizzare l’intero profilo genomico di pazienti con malattia di Alzheimer e individuare le predisposizioni genetiche alla base dell’insorgenza della patologia. I risultati dello studio, condotto dalla giovane ricercatrice Magdalena Arnal nel laboratorio Sapienza di Gian Gaetano Tartaglia, sono stati pubblicati sulla rivista Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring. In particolare, per costruire i profili genomici, è stato utilizzato un subset di dati costruito a partire da due dei più grandi database esistenti: UK Biobank e ADNI.

“Le combinazioni ottenibili sono innumerevoli, abbiamo quindi sviluppato un approccio informatico di tipo machine learning per semplificare l’analisi – spiega Magdalena Arnal – senza questa svolta computazionale la nostra analisi non sarebbe stata possibile”. In questo modo i ricercatori hanno identificato sei varianti SVN in una zona del genoma, il cromosoma 19, che permettono di identificare un gran numero di individui come potenziali casi di Alzheimer.

“Quello che abbiamo scoperto è definito epistasi, una forma di interazione genica per cui una variazione genica può mascherare o contribuire all’espressione fenotipica di altri geni – aggiunge Gian Gaetano Tartaglia. “Questa è la chiave per comprendere l’organizzazione del genoma: a seconda di come gli SNV si combinano, un individuo può sviluppare la malattia di Alzheimer o meno”. Il prossimo step per i ricercatori sarà quello di identificare nuovi patterns coinvolti in altre malattie.


Fonte: askanews.it

Studio: dopo il covid dimezzata percezione gravità patologie cuore

Nonostante le malattie cardiovascolari rappresentino ancora oggi la prima causa di mortalità nel nostro Paese, responsabili del 44% di tutti i decessi, con una prevalenza più elevata della media europea (7.499 casi ogni 100mila abitanti), quasi la maggior parte dei giovani è convinta che la prevenzione sia inutile e che i loro comportamenti non influenzino la salute cardiovascolare. Lo dimostrano i dati di un un’indagine su 10mila studenti di età compresa tra i 12 e 19 anni, condotta dall’Associazione Laboratorio Adolescenza e Istituto di ricerca IARD, in collaborazione con la Fondazione A. De Gasperis di Milano. Ai partecipanti è stato chiesto quale fosse secondo loro la malattia più diffusa e quale la più grave tra quelle che causano maggiore mortalità tra tumore, malattie cardiovascolari, diabete e Covid-19. I risultati dell’indagine rilanciati e accolti con preoccupazione dagli esperti della Fondazione “Il Cuore Siamo Noi”, in occasione della giornata dedicata alla lotta ai fattori di rischio prevenibili, mostrano che i i giovani dopo la pandemia sono diventati più scettici riguardo alla prevenzione cardiovascolare e meno preoccupati della gravità e della diffusione delle malattie cardiache. Stando ai risultati dell’indagine dal 2019 a oggi la percentuale dei ragazzi che non credono esistano comportamenti idonei a prevenire le malattie cardiovascolari è aumentata dal 30% a oltre il 45%. Dimezzata invece la percezione della gravità delle patologie cardiache: in calo dal 30 al 16% tra quelle che causano maggior mortalità, tanto che i giovani ritengono il cancro ben 4 volte più mortale. “Il Covid e la complessa situazione in cui i giovani si sono ritrovati a vivere in questi anni, hanno ridotto la fiducia dei ragazzi verso la prevenzione cardiovascolare e anche la percezione della diffusione e della gravità delle malattie cardiache, spingendoli ad abbassare la guardia, anche perché l’emergenza sanitaria ha determinato la sospensione delle campagne di prevenzione cardiovascolare – commenta Francesco Barillà, Presidente della Fondazione “Il Cuore Siamo Noi”, professore Associato di Cardiologia e Direttore Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università Tor Vergata di Roma -. Tutto ciò ha comportato un eccesso di cibo compensativo, maggiore sedentarietà, aumento del consumo di alcol e fumo, tutti elementi che mettono a rischio la salute del cuore, quando buona parte delle malattie cardiovascolari sono prevenibili seguendo corretti stili di vita che dovrebbero essere messi in pratica sin dall’adolescenza”. I dati più allarmanti sul peggioramento degli stili di vita, in particolare dei più giovani, riguardano in primis il fumo. Stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) emerge che il 37,5% dei ragazzi di età compresa tra 14 e 17 anni, ha già avuto contatto con il tabacco. Ancora più preoccupanti le cattivi abitudini relative a dieta ed attività fisica. Uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità mostra che l’88% dei giovani italiani di età compresa tra gli 11 e i 17 anni non raggiunge i livelli di attività fisica raccomandati e sono meno del 10% quelli che arrivano a un’ora al giorno. Sul fronte dell’alimentazione non va meglio: 3 su 10 non fanno la prima colazione con un eccessivo consumo di snack, bevande gassate e zuccherate, mentre solo una parte residuale consuma porzioni adeguate di frutta (17%) e di verdura (13%). “Tutti questi comportamenti non fanno che esporre i ragazzi a rischi cardiovascolari molto seri una volta diventati adulti – sottolinea Pasquale Perrone Filardi, Presidente SIC, professore Ordinario di Cardiologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Napoli Federico II -. Ma è proprio partendo da corretti stili di vita, troppo spesso sottovalutati in particolare dai giovani, che si può invertire questo trend, visto che le malattie cardiovascolari restano la prima causa di morte e una delle prime cause di ospedalizzazione nel nostro Paese. Occorre pertanto sensibilizzare a corretti stili di vita a tutte l’età. Ed è proprio la promozione e la sensibilizzazione sull’importanza della prevenzione delle malattie cardiache, come arma più efficace per combatterle, la mission che si propone di perseguire la nostra Fondazione a tutela della salute pubblica”.

Fonte: askanews.it

Tra i consigli, mai saltare gli spuntini

Che cosa stavi facendo? Dove eri arrivato? Stanchezza, distrazioni, pensieri possono assorbire l’attenzione di bambini e ragazzi, portandosi via tempo prezioso durante i pomeriggi di studio a casa. In questo contesto la merenda pomeridiana diventa un momento fondamentale per ricaricarsi, prendersi un momento di coccola per sé e affrontare il resto della giornata con maggiore energia. Lo ribadisce “A scuola di salute” (www.scuoladisalute.it) dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, punto di riferimento in Italia per l’educazione alimentare dei più giovani che, in collaborazione con Unione Italiana Food ha suggerito 10 merende per bambini e ragazzi in età pediatrica che aiutano a recuperare la concentrazione. Le proposte di merenda sono disponibili sul sito www.merendineitaliane.it insieme con una serie di consigli indirizzati ai più giovani per poter vivere al meglio la quotidianità soprattutto nei momenti in cui affiora la stanchezza mentale.

LE 10 MERENDE PER BAMBINI E RAGAZZI CHE FAVORISCONO LA CONCENTRAZIONE La prima regola è fare una merenda varia, adeguata ed energetica. Importante non saltarla mai ma allo stesso tempo non raddoppiarla. Tra i 10 suggerimenti di merende per ritrovare la concentrazione proposte da “A scuola di salute” dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù troviamo spuntini sia dolci che salati. Si va dalla “macedonia di frutta fresca e secca” al “pane tostato con ricotta e miele”, dallo “yogurt magro con frutta fresca, cioccolato fondente” a un “panetto di pasta sfoglia, mela, cannella e gherigli noci” fino a una “merendina pan di spagna al cioccolato”, solo per citarne alcune.
Anche le merendine, dunque, in virtù di una porzionatura stabilità di appena 35 grammi, possono rappresentare una valida alternativa a merenda per recuperare la concentrazione oltre a essere un prodotto buono, legato al comfort food con il quale ci possiamo regalare un momento di piacere.

“L’energia assunta a merenda migliora la capacità di concentrazione ed apprendimento, il tempo di reazione, l’umore, la memoria ed il controllo metabolico – afferma il Dott. Giuseppe Morino, Resp. UO Dietologia Clinica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. – Uno scarso apporto, invece, di carboidrati determina una diminuzione nelle prestazioni cognitive e l’arrivo alla cena con un notevole senso di fame. Occorre quindi dare vita a merende nutrizionalmente adeguate, in cui gli elementi fondamentali appaiono la densità dei nutrienti ed energetica che svolgono un ruolo importante nel mantenimento dell’equilibrio metabolico.”
GLI ESPEDIENTI PER RICARICARSI AL DI LÀ DELLA MERENDA Compiti per casa, sport, teatro, corsi di musica, senza contare le feste di compleanno, gli incontri con i compagni al parco. Portare avanti numerose attività richiede un’elevata dose di energia, impegno e attenzione per i ragazzi. Per questo motivo “A scuola di salute” dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù” oltre a consigliare una sana e adeguata merenda suggerisce delle sane abitudini a corredo, per affrontare tutte le attività pomeridiane con la giusta carica e garantire una buona dose di concentrazione.

Semplici ma efficaci consigli come: idratarsi, spegnere telefonini e tablet, bere una spremuta o un succo di frutta naturale prima dello sport, prendersi 5 minuti di svago ogni ora di studio e se si è stanchi perché no: concedersi una breve pausa per il sonno
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E PER GLI ADULTI? ECCO I CONSIGLI DELLA HEALTHY INFLUENCER PER RECUPERARE LA CONCENTRAZIONE Avere a cuore il proprio benessere significa mettere al centro il tempo che dedichiamo al recupero delle nostre energie. Cristiana Banchetti, healthy influencer, mette in evidenzia 10 consigli per gli adulti, scientificamente provati, per ritornare concentrati e produttivi in 15-20 minuti. Anche qui protagonista è la merenda, un momento di piacere capace di appagare corpo e spirito. Troviamo poi attività come praticare 10 minuti di yoga o leggere qualche pagina del proprio libro preferito.
Fondamentale l’idratazione: bere riduce la sensazione di fatica e stanchezza e migliora le capacità cognitive. Importante per recuperare le energie il cosiddetto “Power Nap”: il pisolino ristoratore è fondamentale e basteranno 10-20 minuti. Ma anche una piccola pausa beauty può aiutare a ricaricarsi. E poi ancora ascoltare la propria musica preferita: programma la tua canzone preferita, alza il volume e canta il consiglio della healthy influencer: aiuta la respirazione profonda e l’ossigenazione.

Aiuta molto anche camminare all’aria aperta – meglio se con il proprio amico a quattro zampe – e prendersi cura delle proprie piante: in una vita frenetica avere a cuore fiori ed erbe aiuterà a rallentare e a volersi bene. E infine quando ci si sente stanchi, stressati e sopraffatti dagli impegni il consiglio fondamentale è: respira!


Fonte: askanews.it

Frutto tavolo congiunto Famiglie SMA, Centri Clinici NeMO, Simeu e Simeup

Se la gestione dell’atrofia muscolare spinale (SMA) è a volte complessa di per sé, la questione si complica nelle situazioni di emergenza che richiedono l’accesso immediato al Pronto Soccorso. Riconoscere tempestivamente e con efficacia i segnali di rischio diventa allora fondamentale. La SMA, infatti, è una patologia genetica rara che colpisce principalmente i bambini dalla nascita o durante la fase evolutiva facendo perdere nel tempo le capacità motorie. Ecco perché gli operatori, se adeguatamente preparati, possono intervenire e fare la differenza tra la vita e la morte.

In Italia nascono ogni anno circa 40-50 bambini con questa patologia che rende progressivamente difficili gesti quotidiani come sedersi, stare in piedi e, nei casi più gravi, deglutire e respirare. Ed è proprio dalla necessità di saper gestire l’emergenza che l’alleanza delle competenze multidisciplinari di Famiglie SMA, Centri Clinici NeMO, Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza (Simeu) e la Società Italiana di Medicina Emergenza Urgenza Pediatrica (Simeup), con il supporto non condizionante di Roche, ha portato alla stesura del primo vademecum per gestire l’atrofia muscolare in medicina d’emergenza e urgenza. Per la prima volta in Italia, i Pronto Soccorsi potranno riferirsi a raccomandazioni condivise, proprio per creare consapevolezza dei bisogni clinici di chi vive con la patologia e intervenire con una sempre più corretta e puntuale assistenza.

“Riconoscere che una persona con atrofia muscolare spinale abbia bisogno di risposte specifiche e a volte diverse dagli altri pazienti è per noi un traguardo atteso da tempo”, sostiene la Presidente dell’associazione di pazienti Famiglie SMA, Anita Pallara, “è la prima volta che succede in Italia e per una malattia neuromuscolare. È una grandissima vittoria per la nostra comunità ed è solo il primo passo di un percorso prezioso iniziato con Simeu, Simeup e i Centri NeMO. Garantirà un accesso più sereno e sicuro nei Pronto Soccorsi e riuscirà a incidere in modo concreto nella gestione delle emergenze”.

La gestione in emergenza del paziente con SMA non sempre, infatti, coincide con la normale gestione messa in atto per chi non ne è affetto. Negli ultimi anni, inoltre, il quadro clinico si è radicalmente modificato alla luce dei nuovi trattamenti di cura che, per fortuna, stanno cambiando la storia naturale della malattia ma, dall’altra, richiedono un aggiornamento costante sulla presa in carico. Per fare un esempio concreto, se la procedura standard nel caso di una crisi respiratoria è dare ossigeno, per un bambino o un adulto con SMA questo tipo di intervento potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso.

Le raccomandazioni sono già disponibili e scaricabili sui portali Simeu e Simeup e saranno a disposizione dei medici di Pronto Soccorso e dei presidi territoriali. La pubblicazione scientifica è consultabile sulla rivista scientifica di SIMEU ITJEM “Italian Journal of Emergency Medicine” a questo link: https://bit.ly/3HY0Yss.

Fonte: askanews.it

Risultati con un grado di precisione vicino al 100%

Una foto alla ‘popò’ sul pannolino e pochi semplici passaggi con lo smartphone per facilitare l’identificazione precoce delle colestasi neonatali, un accumulo di bile nel fegato che può avere effetti molto gravi sulla salute dei bambini. Il nuovo strumento a disposizione dei genitori è la PopòApp, ideata e sviluppata dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù in collaborazione con ANIBEC – Associazione Nazionale Italiana Bambini Epatopatici Cronici. L’applicazione, frutto di una ricerca scientifica pubblicata sul “Journal of Medical Screening”, sfrutta algoritmi di intelligenza artificiale e la caratterizzazione colorimetrica delle feci per restituire risultati con un grado di precisione vicino al 100%.

Le colestasi neonatali – spiega l’Ospedale Bambino Gesù – sono disordini caratterizzati dall’accumulo di bile nel fegato come conseguenza della riduzione o dell’arresto del normale flusso biliare verso l’intestino. Le cause di questi disordini sono varie: problemi metabolici, difetti genetici, malformazioni, infezioni, ma nella maggior parte dei casi sono dovute all’atresia biliare (distruzione progressiva delle vie biliari) che rappresenta la principale indicazione al trapianto di fegato in età pediatrica. Le colestasi sono di difficile diagnosi e con una elevata incidenza in epoca neonatale (ne soffre in media 1 neonato su 2.500). I sintomi caratteristici, che in genere si presentano durante le prime 2 settimane di vita del neonato, sono l’ittero, l’urina scura e le feci di colore chiaro (feci ipo-acoliche). Il riconoscimento della ipo-acolia fecale attraverso il test del colore (caratterizzazione colorimetrica) è un metodo di diagnosi precoce delle condizioni di colestasi neonatale patologica.

L’app del Bambino Gesù, sviluppata con un algoritmo di machine learning, facilita l’identificazione precoce di colestasi nelle prime settimane di vita dei bambini mediante il riconoscimento delle feci ipo-acoliche. Il sistema consente ai genitori o ai medici di effettuare una valutazione colorimetrica scattando una foto alla popò sul pannolino. L’algoritmo confronta il colore della foto con la carta colorimetrica, restituendo una prima indicazione. Una volta ricevuto il risultato preliminare, l’app consente di contattare il Centro specializzato per approfondire il test tramite una visita o una televisita del bambino, allegando la foto scattata.

PopòApp è risultato di oltre un anno di studi condotti da clinici e ricercatori delle unità di Chirurgia Epato-bilio-pancreatica e dei Trapianti di fegato-rene e di Epatogastroenterologia e Nutrizione del Bambino Gesù, coordinati dal dott. Marco Spada. I risultati della ricerca su 160 immagini campione hanno evidenziato una precisione dell’app pari al 99,4%, con un valore predittivo positivo del 98,4% e una sensibilità del 100% senza falsi negativi, indipendentemente dal modello di smartphone utilizzato. Lo studio è pubblicato sulla rivista scientifica “Journal of Medical Screening”.

“Considerata la gravità delle sue conseguenze, la colestasi, in particolare se causata dall’atresia delle vie biliari, deve essere riconosciuta nel neonato il prima possibile” afferma il dott. Marco Spada, responsabile di Chirurgia Epato-bilio-pancreatica e dei Trapianti di fegato-rene del Bambino Gesù. “Infatti, se la malattia viene individuata e trattata precocemente da specialisti epatologi e di chirurgia epatobiliopancreatica, quasi il 100% dei neonati può essere efficacemente curato e avere normali prospettive di vita. È questo l’obiettivo dell’app mobile che abbiamo sviluppato, che rappresenta uno strumento preciso ed intuitivo al servizio della salute dei bambini e della ricerca medica”.

“L’applicazione – spiega il prof. Giuseppe Maggiore, responsabile di Epatogastroenterologia e Nutrizione del Bambino Gesù – è uno strumento capace di intercettare alcune condizioni patologiche del neonato che, se diagnosticate con ritardo, possono mettere in serio pericolo la salute dei bambini. Per questo motivo l’uso della app è consigliato a tutti i neo genitori sin dai primi giorni dalla nascita dei piccoli e per i primi 3 mesi di vita”.
PopòApp, scaricabile gratuitamente su tutti i dispositivi mobili, è stata presentata nel corso di un convegno promosso dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù rivolto al personale sanitario che si dedica alla cura del neonato e del lattante, agli operatori dei Centri nascita e delle neonatologie e ai pediatri di libera scelta.

Fonte: askanews.it

Studio condotto da team di ricerca dell’Università di Bari

Uno studio scientifico appena pubblicato sulla rivista “Nutrients” ha condotto alla realizzazione di un questionario disponibile gratuitamente on-line grazie al quale tutti possono valutare se il loro stile di vita è aderente allo stile della Dieta Mediterranea e ricevere consigli mirati su cosa fare per ridurre il proprio rischio cardiovascolare.

Il gruppo di Ricerca del prof. Antonio Moschetta, ordinario di Medicina Interna presso l’Università degli studi di Bari, nell’ambito degli studi finanziati dal Progetto PNRR “On-foods”, ha elaborato un nuovo score di rischio per analizzare non solo la tipologia e le quantità di cibi assunti ma anche le abitudini relative allo stile di vita, come il momento della giornata in cui vengono consumati i pasti principali, l’attività fisica, l’assunzione di alcolici.

“Si tratta di abitudini – afferma Moschetta – che non erano mai state prese in considerazione dai precedenti questionari che valutavano l’aderenza alla Dieta Mediterranea e che invece hanno un impatto importante nella patogenesi dell’obesità e delle malattie che ne derivano, sul piano cardiovascolare, metabolico e oncologico”.

Lo score (http://www.chronomeddiet.org/) prevede un risultato che va da meno 13 a 25 punti: più è basso il punteggio, minore è l’aderenza alla dieta mediterranea, maggiore sarà il rischio di adiposità addominale.

“Abbiamo previsto punteggi diversi in base alle quantità in cui assumiamo frutta, verdura, carne, pesce, pasta, burro, cereali, carboidrati, alcolici ma anche delle domande relative al momento della giornata in cui li consumiamo e alla frequenza con cui facciamo esercizio fisico. Non possiamo pensare che lo stesso pasto abbia gli stessi effetti su due persone che hanno un consumo energetico diverso o che una stessa quantità di pasta venga metabolizzata e ‘immagazzinata’ allo stesso modo in due momenti diversi della giornata. Infatti, le cattive abitudini a tavola si ripercuotono sull’accumulo di tessuto adiposo viscerale e proprio questo grasso è responsabile di inviare messaggi ormonali a tutto l’organismo e di causare quelle alterazioni responsabili di malattie cardiovascolari. Dunque, conoscere i rischi a cui si va incontro è fondamentale per la propria salute, non solo per ammalarsi meno ma per far funzionare meglio le terapie, per esempio in caso di diabete e ipercolesterolemia. Grazie a questo score sarà sia più facile individuare i pazienti a rischio di obesità ma anche migliorare le abitudini alimentari di chi è già in sovrappeso”, precisa il prof. Moschetta.

Lo studio – informa Uniba – è stato condotto per circa 3 anni fra i pazienti della Clinica Medica Universitaria “C. Frugoni” del Policlinico di Bari (direttore prof. Carlo Sabbà), ed è basato su casi concreti: più di 350 soggetti con età media di 50 anni.

“Siamo molto orgogliosi del fatto che uno studio scientifico, possa trovare applicazione immediata fra tutti coloro che vorranno sottoporsi al test, in maniera peraltro totalmente gratuita e anonima, attraverso il proprio smartphone, tablet o pc. Basteranno pochi minuti e si riceverà una carta d’identità alimentare con consigli mirati per migliorare la propria forma fisica ma soprattutto il proprio profilo di rischio”.

Il primo autore dello studio, il dr. Carlo De Matteis, conclude: “L’alimentazione deve essere sempre più al centro della terapia medica, come primo argine alle malattie e come strumento per vivere meglio. Il nostro score pone l’accento sulla stretta relazione con l’obesità viscerale, la vera pandemia del nostro tempo. Con questo studio abbiamo avviato un percorso che cerca di porre sempre più l’attenzione su quanto la prevenzione parta dalle nostre tavole, con l’obiettivo di una medicina sempre più mirata al singolo individuo e ad intercettare il paziente prima ancora che manifesti sintomi”.

Fonte: askanews.it

La proposta: unicità rapporto Pediatra ospedaliero e del territorio

La “stretta” decisa dal governo sul ricorso ai Pediatri a gettone è giusta e condivisibile, ma occorre trovare una “strategia di uscita” per garantire la sopravvivenza di molti reparti di Pediatria. L’appello arriva dalla Società Italiana di Pediatria, che sottolinea come l’aumento progressivo dell’età media dei Pediatri e del numero di pensionamenti, sia nel territorio che in ospedale, e il numero crescente di pediatri che scelgono di lasciare l’ospedale per dedicarsi al territorio o all’attività privata, stiano mettendo a rischio il funzionamento stesso di molte strutture ospedaliere di Pediatria e di Punti Nascita, nei quali non si riesce più ad assicurare la continuità dell’assistenza. Proprio per tale ragione numerose realtà, per tamponare l’emergenza personale, sinora hanno fatto ricorso ai medici gettonisti, con poco controllo su professionalità e competenza degli operatori ed a discapito della sicurezza delle cure. Un fenomeno certamente da contrastare, prevedendo però adeguate contromisure, senza le quali ben 65 Pediatrie di tutta Italia rischierebbero la paralisi.

Quali le proposte avanzate dalla Società Italiana di Pediatria? “La razionalizzazione delle piccole Strutture Ospedaliere di Pediatria (ormai quasi esclusivamente dedicate ad una attività ambulatoriale di “emergenza”, spesso in condizioni di estrema precarietà assistenziale e strettamente collegate al mantenimento di Punti Nascita substandard) può rappresentare un primo intervento, ma non in grado, da sola, di dare una risposta efficace e duratura. Altro provvedimento utile per tamponare la criticità della situazione può essere rappresentato dal ricorso all’attività aggiuntiva (con remunerazioni orarie sovrapponibili a quelle riservate ai gettonisti) da parte di specialisti dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, superando il limite dell’appartenenza alla stessa Azienda e favorendo una disponibilità su base regionale (ed eventualmente anche extraregionale)”. Nella consapevolezza di come sia però necessaria una strategia di cambiamento di più ampio respiro, la Società Italiana di Pediatria propone che, “almeno fino al superamento della situazione di emergenza, sia modificata la modalità di accesso al mondo del lavoro dei giovani Pediatri e degli specializzandi dell’ultimo biennio del percorso formativo, strutturando un rapporto di lavoro che preveda lo svolgimento dell’attività assistenziale da parte di ciascun professionista sia in Ospedale che sul Territorio. Questa modalità, da considerare obbligatoria per tutti i nuovi Pediatri assunti dal SSN, potrebbe essere estesa, su base opzionale, anche a coloro che già prestano servizio, sia come pediatri ospedalieri che come pediatri di libera scelta. Un modello organizzativo di questo tipo potrebbe ridurre il fenomeno della “fuga” dagli ospedali e, al tempo stesso, consentire una migliore copertura territoriale anche nelle aree geografiche più svantaggiate. Sarà necessario declinare meglio le modalità di strutturazione dei diversi contratti di lavoro e definire gli aspetti economici, ma il superamento del rapporto di esclusività appare il passaggio fondamentale sul quale costruire i nuovi modelli operativi dell’assistenza pediatrica e neonatologica nel nostro Paese”.

“Già oggi, infatti”, conclude la Società Italiana di Pediatria, “non vi sono i medici specialisti in Pediatria necessari per mantenere l’attuale sistema organizzativo, realizzatosi nel nostro Paese a partire dal 1980, che prevede una assistenza pediatrica territoriale distinta e non integrata con quella ospedaliera. Il gap già esistente è destinato ad aumentare nei prossimi 3-4 anni, nonostante la riduzione della natalità e l’aumento del numero dei contratti per le scuole di specializzazione, per il numero elevato di pensionamenti tra i pediatri di famiglia e di dimissioni volontarie tra i pediatri ospedalieri”.

Fonte: askanews.it

Uno studio dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (CnrIbpm) di Roma, pubblicato sulla rivista Autophagy, ha identificato una nuova molecola – SM15 – che riesce a inibire l’autofagia cellulare, cioè il processo attraverso il quale i componenti danneggiati delle proteine vengono riutilizzati per la costruzione di nuove molecole proteiche. Questo processo consente alle cellule tumorali, in taluni casi, di sopravvivere. “Nei tumori, l’autofagia svolge un duplice ruolo, perché è in grado di favorire la sopravvivenza o la morte delle cellule tumorali, a seconda del tipo e dello stadio del tumore”, spiega Daniela Trisciuoglio, ricercatrice del Cnr-Ibpm e coordinatrice dello studio, “questa piccola molecola impedisce una fase specifica dell’autofagia e, allo stesso tempo, blocca la mitosi, attraverso la quale da una cellula si generano due cellule figlie dallo stesso corredo cromosomico di quella originaria. Ciò determina, per le cellule tumorali, l’impossibilità di riprodursi e di rigenerarsi, causandone la morte”.

In particolare, lo studio ha dimostrato che la molecola blocca le fasi più tardive del processo autofagico agendo sulla proteina SNAP29, che guida la fusione tra il materiale da degradare e i lisosomi, gli organelli che smantellano le proteine. “L’attività della SM15 impedisce la degradazione ed il riciclo di materiali cellulari deteriorati, ormai tossici per la cellula. Durante la mitosi, ovvero il processo di divisione cellulare, la molecola si inserisce nelle regioni responsabili del movimento dei cromosomi, producendo cellule figlie fortemente sbilanciate nel numero di cromosomi, che muoiono in breve tempo”, conclude Francesca Degrassi ricercatrice del Cnr-Ibpm, “questa duplice azione della molecola SM15 potrà avere grande rilevanza nell’ambito della ricerca preclinica: infatti, nei tipi di tumore che necessitano di una funzionale autofagia per sopravvivere – quali il glioblastoma e gli adenocarcinomi duttali pancreatici – questa molecola potrà essere un efficace inibitore del processo. Inoltre, permetterà di identificare nuovi trattamenti farmacologici in grado di indurre la distruzione delle cellule tumorali attraverso due strade sinergiche, la morte in mitosi e quella determinata dall’inibizione dell’autofagia”.

Fonte: askanews.it

Il 65% si trova in nord Italia

E’ stata aggiornata la prima mappatura geolocalizzata, interattiva delle risorse territoriali (che comprende sia i servizi SSN sia le strutture del privato sociale) che si occupano di dipendenza da internet, disponibile all’indirizzo https://dipendenzainternet.iss.it/. Realizzata dal Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Iss, conta al 5 aprile 2023 102 Centri, con 3667 utenti presi in carico soprattutto tra i 15 e 18 anni e 358 professionisti impegnati. L’ultimo aggiornamento offre una panoramica dei servizi che si presentano sul territorio in modo disomogeneo. La maggiore concentrazione è nelle regioni del Nord Italia (38 Centri solo in Lombardia) che ospitano il 65% dei servizi, seguite dalle regioni del Centro con il 27% dei servizi (12 nelle Marche) e dalle regioni del Sud e delle Isole con il 9% dei servizi (4 in Sardegna). Gli utenti in carico dichiarati sono 3.667, soprattutto maschi (75%), la fascia d’età presa in carico più frequentemente (22,9%) è quella compresa tra i 15 e i 17 anni e il primo contatto è quasi sempre da parte dei genitori. Secondo la mappatura sono 358 i professionisti impiegati all’interno dei Centri, soprattutto psicoterapeuti (30%), assistenti sociali (16%), educatori professionali (15%) e medici psichiatri o neuropsichiatri (15%). 

Tra gli strumenti di diagnosi il 96% dei servizi utilizza il colloquio clinico, il 58% la testistica standardizzata e il 51% le scale di personalità. I percorsi di trattamento offerti sono caratterizzati prevalentemente da un approccio multimodale integrato che vede nell’intervento di sostegno psicologico al paziente (93%) l’intervento maggiormente proposto, a seguire la psicoterapia individuale (91%) e l’intervento di sostegno psicologico ai familiari (82%), l’intervento psicoeducativo individuale (73%) e la psicoterapia familiare (68%). La maggior parte delle risorse territoriali, il 91%, è in grado di rispondere alla domanda relativa al trattamento anche di altre dipendenze comportamentali, in particolare da gioco d’azzardo (69%) e shopping compulsivo (20%) e sex addiction (20%). Il 72% dei centri prende in carico utenti anche per le dipendenze da sostanze legali (soprattutto alcol e nicotina, rispettivamente 86% e 46%)e il 69% per dipendenze da sostanze illegali. Tra quest’ultime il 65% per abuso di cannabinoidi e cocaina. L’accessibilità ai servizi è gratuita nell’88% dei casi, tramite ticket nel 10% dei casi e tramite altri accessi nel 2% dei casi. La piattaforma è una guida online sviluppata nell’ambito del progetto CCM “Rete senza fili: tante connessioni possibili”: un elenco ragionato delle strutture socio-sanitarie che si occupano delle problematiche legate all’uso di Internet e che facilita l’accesso alle risorse territoriali agevolando e riducendo i tempi d’incontro fra domanda dell’utente e risposta dei servizi. L’Istituto Superiore di Sanità inoltre ha messo a disposizione tutti i Telefoni Verdi sulle dipendenze (fumo, alcol, droga, doping, gioco d’azzardo) per poter intercettare anche i disturbi legati alla dipendenza da internet. Attraverso la mappa si può consultare la scheda anagrafica del Centro, trovare i contatti, avere informazioni sulle fasce d’età prese in carico dal servizio e le tipologie di trattamento. La mappa è un continuo aggiornamento e i Centri che desiderano essere inseriti possono richiederlo scrivendo all’indirizzo dipendenzeinternet@iss.it.

Fonte: askanews.it

Studio Giappone: presenti anche nella carne di manzo, maiale e pollo

Proteggono il sistema immunitario, prevengono alcune patologie, fortificano il nostro organismo: gli antiossidanti naturali sono molecole, native in alcuni cibi, fondamentali per la nostra salute, in grado di neutralizzare i radicali liberi e, quindi, di proteggere le cellule. Alcuni studi confermano che un’alimentazione ricca di antiossidanti provenienti da frutta e ortaggi, ma anche dalla carne, può avere un ruolo determinante nella prevenzione di malattie cardiovascolari, neurodegenerative, metaboliche e tumori.

È recente la scoperta di alcuni ricercatori giapponesi che hanno evidenziato nuovi antiossidanti nella carne di manzo, maiale e pollo. Il gruppo di ricerca guidato da Hideshi Ihara della Graduate school of science della Osaka metropolitan University, con un metodo innovativo, è stato il primo a scoprire dei dipeptidi contenenti 2-oxo-imidazolo (2-oxo-IDP), che hanno un atomo di ossigeno in più rispetto ai normali IDP. I dipeptidi imidazolici (IDP), abbondanti nella carne e nel pesce, sono sostanze prodotte nel corpo di vari animali, compreso l’uomo, e sono considerati efficaci nell’alleviare l’affaticamento e prevenire la demenza. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’ultima edizione della rivista Antioxidants.

“I dati che emergono da questa ricerca sono molto importanti – spiega Susanna Bramante, agronomo PhD, diet and nutrition adviser – perché confermano le proprietà benefiche della carne e aggiungono altre sostanze antiossidanti a quelle già note, come glutatione e acido lipoico. Prima si pensava che gli antiossidanti fossero presenti solo nella frutta e nei vegetali. Oggi sappiamo che la carne di manzo, pollo e maiale, contiene sostanze specifiche ad alta attività antiossidante già in piccole quantità. I composti bioattivi della carne erano già noti e questo studio ha dato un’ulteriore conferma del ruolo funzionale e nutraceutico che può avere la carne grazie ai suoi effetti protettivi sulla salute”.

Il corpo umano produce autonomamente i propri antiossidanti, ma il loro livello dipende anche dal cibo che mangiamo. Mangiando cibi ricchi di antiossidanti naturali possiamo creare una protezione contro alcune malattie, evitando alle cellule danni causati dai radicali liberi. E le proteine sono elementi essenziali per la crescita e la riparazione, il buon funzionamento e la struttura di tutte le cellule viventi. Le proteine sono localizzate soprattutto nei muscoli (actina e miosina) e nelle ossa e sono costituite da unità elementari, gli aminoacidi; hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel funzionamento di tutti gli organi e tessuti. Gli aminoacidi sono una ventina, di cui alcuni non indispensabili, poiché l’organismo stesso è in grado di sintetizzarli ed altri, invece, essenziali che devono essere apportati attraverso l’alimentazione.

“Una corretta alimentazione è importante in ogni fase della vita di ciascuno di noi sin dall’infanzia – sottolinea Bramante – e nella donna, in particolare, perché attraversa durante il suo percorso di vita diverse fasi. Il fabbisogno proteico della donna aumenta nelle fasi critiche come la gravidanza, l’allattamento e con l’età. Dai 18 ai 59 anni l’assunzione proteica raccomandata secondo i Larn, cioè i valori di riferimento per la dieta, è di 54 grammi di proteine al giorno, che aumentano a 66 grammi dopo i 60 anni, addirittura a 80 nel terzo trimestre di gravidanza e 75 nel primo semestre di allattamento. Sono richieste molto alte e l’unico modo per soddisfarle efficacemente è con le proteine di alta qualità, come quelle nobili di origine animale, che vengono assorbite e utilizzate al 100% senza ostacoli e sono complete di tutti gli amminoacidi essenziali”.

Per soddisfare gli alti fabbisogni proteici è importante anche la qualità proteica oltre che la quantità: “Specialmente i nutrienti che si trovano solo nella carne – aggiunge ancora Bramante – come gli antiossidanti specifici rilevati nello studio dei ricercatori giapponesi, come la carnosina, anserina, balenina, omocarnosina e omoanserina e i loro omologhi a più alta attività antiossidante. Questi svolgono il loro ruolo in elevate quantità nei muscoli, nei tessuti e nel cervello, hanno importanti funzionalità biologiche e protettive contro la formazione di tumori, l’insorgenza di patologie e l’invecchiamento, e ci fanno capire l’importanza della presenza di carne nella dieta”.

Fonte: askanews.it